A holding space

Le borse mi hanno sempre affascinato, da quando rovistavo in quella di mia madre dove mi si svelavano piccoli mondi sconosciuti che odoravano di lei, del suo profumo. Nelle loro molteplici forme e nel rapporto che hanno con il corpo di ogni donna che le indossa e con le sue mani, esprimono l’originalità di ogni storia femminile che le emancipa dall’essere solamente utili accessori a favore di significati più profondi.
Nella “Introduzione alla psicoanalisi” Freud, infatti, rilevava in tutti quegli oggetti e spazi dalla forma cava, come le borse, una rappresentazione simbolica dell’utero materno, luogo per eccellenza atto a racchiudere, proteggere, tutelare, accogliere, tenere.
Accompagnano noi donne nella nostra giornata portate in ogni modo: al braccio, in mano, a tracolla, dietro le spalle.
Quando ci sediamo in autobus, in metropolitana, in una sala d’attesa, e siamo strette tra altre persone ma non solo, spesso le posiamo sulle ginocchia e si trasformano, come grembi, in uno spazio dove le nostre mani possono appoggiarsi, riposare, sostenersi.
Diventano luoghi, in quella frazione di riposo, dove ritrovare la stessa quiete contenuta e raccolta che il neonato sperimenta nelle braccia e tra le mani della madre (D. Winnicott).
Una capacità delle donne, figlie della Dea Madre, di saper accogliere sia se stesse che l’altro, di custodire nel proprio grembo, simbolicamente nella propria utero-borsa, complesse reti di emozioni e relazioni.